Un’interpretazione dell’antico mito biblico proposta dal filosofo Gian Piero Jacobelli, docente alla Sapienza Università di Roma |
Dicendo ciò che pensano, ascoltando ciò che gli altri dicono, entrano in una dinamica incerta e rischiosa. Non di rado la comunicazione si riduce a una sovrastruttura spersonalizzante; che tende a uniformare le personalità e a cancellarne la spontaneità. La comunicazione avvicina. Ma fa anche crescere le distanze. In particolare oggi, perché la tecnologia tende a sovrastare i contenuti.
Per questo di fronte ai media ci sono posizioni estreme: sono la principale causa dei mali della società, oppure sono l’unica strada percorribile verso una società più giusta, inclusiva e umana. In quanto istituzioni storiche e contingenti dirette da uomini, non sono né una cosa né l’altra, bensì entrambe. Una posizione davvero critica ha fiducia nei benefici dello sviluppo del sistema mediatico.
Al tempo stesso mette in guardia dalle promesse utopiche. Attribuire ai media tutte le colpe dell’indebolimento dei pilastri etici della società è eccessivo.
D’altro canto, è pur vero che i media disinformano più di quanto informino.
Qualsiasi mezzo è potenzialmente massificante. Perciò la strategia più efficace contro lo svuotamento di sé consiste nel fornire all’individuo criteri che gli permettano di pensare per se stesso e agire di conseguenza.
La preoccupazione per migliorare la qualità della comunicazione mediatica è proporzionale all’insoddisfazione che la circonda. Forse perché genera più aspettative di quanto effettivamente sia in grado di compiere. O perché il suo potenziale di umanizzazione è sprecato. Assistiamo a una Babele dei linguaggi.
E non sappiamo deciderci a coglierne le opportunità. A ben vedere, infatti, l’antico mito di Babele ha ancora molto da insegnarci. Già nei primi anni dell’avvento di internet, alcuni massmediologi avevano teorizzato una prossima morte del linguaggio scritto, a causa dei new media. Ciò avrebbe portato a un ritorno all’oralità e alla più immediata comunicazione per immagini. Eppure la lingua scritta ha resistito, avverte il sociologo Mario Morcellini. Sebbene sia cresciuto il gap tra le generazioni. Non più solo tra genitori e figli, ma anche tra generazioni anagraficamente vicinissime: “Una Babele costituita da classi d’età e di cultura (trasversali alle classi sociali), che parlano ciascuno un diverso stadio di decomposizione della lingua”.
Soprattutto negli adolescenti emerge talvolta un compiacimento nel distorcere le parole: una sorta di “bullismo linguistico”. Ben evidente nell’universo dei telefonini. In quale direzione andrà il cambiamento nei prossimi decenni? La morte “della lingua”, sostituita da una sorta di codice fonetico/iconico, o la morte “delle lingue”, a vantaggio di nuove vulgate gergali? Il filosofo Gian Piero Jacobelli, docente di Etica della comunicazione alla Sapienza Università di Roma, offre una chiave di lettura sofisticata dell’evoluzione in corso nel saggio “Babele o della traduzione” (Franco Angeli). Il libro, che ha una prefazione di Mario Morcellini, utilizza abilmente concetti e strumenti provenienti dalla semiotica, dall’etica e dall’estetica.
La vicenda biblica della Torre di Babele insegna che il proliferare delle lingue non uccide piuttosto trasforma e articola la comunicazione. Per ora sono in pochi a sostenere che i new media miglioreranno l’affabulazione del mondo, incrementandone le potenzialità espressive. Non a caso, rimarca Morcellini, “una generazione circondata di stimoli sensoriali e intellettuali, che ha a disposizione in età precocissima i più avanzati mezzi di comunicazione e informazione, dichiara tuttavia di soffrire di solitudine: è questo uno dei molti aspetti del paradosso della sovra stimolazione comunicativa, della quale internet è il massimo esempio”. Proprio la forma di comunicazione che dovrebbe rappresentare una virtuale finestra sul mondo, sembra invece restringere l’universo conoscitivo dei giovani. La navigazione stessa tende a diventare un’attività solitaria e socialmente alienante. La libertà garantita dalla Rete paradossalmente tende a spersonalizzare chi la esercita.
L’eccesso di comunicazione provoca una sorta di censura. La velocità di questo flusso di stimoli e la conseguente necessità di adattamento ostacolano una percezione analitico-critica dei concetti. E la loro memorizzazione a lungo termine. “La Babele dell’informazione sminuisce, proprio in quanto lo amplifica a dismisura, il valore di qualsiasi evento”, mette in guardia Morcellini.
L’analisi di Jacobelli muove da un paradosso: “Babele è l’emblema contraddittorio di una comunicazione per la quale si deve presupporre una identità che renderebbe inutile comunicare. E di una diversità che renderebbe impossibile comunicare”. I tradizionali modelli elaborati per dar conto del fenomeno comunicazione risultano inadeguati. Accanto all’emittente e al ricevente si affollano altri partecipanti. “Per quanto concerne Babele, la torre che crolla s’identifica con la stessa ombra della torre, che traduce l’andamento verticale in un andamento orizzontale e, per così dire, sdraia la torre a terra e la trasforma in un ponte”. Il filosofo francese Jacques Derrida sostiene che Babele, a causa della ambiguità del corrispondente versetto biblico, non si esaurirebbe in un nome comune, quello di “confusione”. E neppure in un nome proprio, quello della città. Ma sarebbe anche il nome, o uno dei tanti nomi di Dio. Intorno all’interpretazione di Babele, evidentemente meno scontata e concorde di quanto sembri, circolano motivazioni e argomentazioni spesso polemiche. E sempre ideologicamente orientate.
Babele, scrive Jacobelli, torna di attualità proprio quando “la globalizzazione costringe a prossimità che appaiono foriere di abiure e conflitti più di quanto non agevolino confluenze e intese”. L’autore prende le mosse da una rivisitazione dell’Antico Testamento; per soffermarsi in seguito sulle sue implicazioni letterarie, in ordine all’emergenza delle lingue nazionali. Ma è il problema della traduzione che gli sta a cuore.
Tradurre, quando non è un “tradire”, comporta infatti una impegnativa negoziazione. Non solo tra realtà separate, ma anche tra noi stessi. Meglio ancora “tra quella pluralità di discorsi che noi siamo e che sottraggono alla lingua lo scontato carattere strumentale, per farne la infrastruttura portante della nostra, complessa e articolata identità”.
Jacobelli, da sempre critico severo della separazione tra le “due culture”, quella scientifica e quella umanistica, inquadra bene il contributo che può provenire dalle neuroscienze. E anche i limiti filosofici di certe incursioni di scienziati in territori tradizionalmente riservati agli “umanisti”. La creazione di una lingua comune, osserva, non verrà certo dallo studio delle circonvoluzioni cerebrali. S’impone piuttosto “una nozione di traduzione fondata in una radicale e sconcertante ‘assenza in presenza’, come quando, nel corso di una simultanea, si ascolta qualcosa due volte, nella lingua originale e in quella tradotta, e al tempo stesso si capisce e si capisce di non capire”.
In questo paradossale esserci e non esserci di quell’altro con il quale stiamo confrontandoci, si cela il modello autentico di una comunicazione creativa. Quella che associa e sintetizza tre differenze: “La differenza di chi parla, la differenza di chi ascolta e la differenza di quel terzo che traduce come può, lasciando ognuno libero di capire o di non capire”. Babele riassume questo triplice ascolto: quello della parola sacra, che viene da fuori e non ci appartiene; quello della parola profana, che viene da dentro e ci appartiene persino troppo; infine, quello della parola che si consacra profanandosi, andando in giro per il mondo nella sua inevitabile irripetibilità.
Il modello traduttivo, nel quadro del paradigma di Babele, appare dunque in grado di suggerire approcci inediti. Resta inteso che la qualità della comunicazione non si ottiene per decreto. Né redigendo nuove regole deontologiche. La decisione per il riconoscimento dell’altro nasce dall’esperienza della “carenza originaria”, che è esperienza della finitezza. Quando la comunicazione non è più uno strumento di potere, si trasforma in uno strumento di servizio. In grado di rispondere a un interesse genuino per l’altro.
Il coinvolgimento è più che la semplice empatia sentimentale con le esperienze degli altri. Un autentico coinvolgimento richiede un contributo attivo alla promozione dell’altro, che include sia gli aspetti materiali della vita che quelli spirituali.
di: Pasquale Rotunno
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